Beppe Cantele - Sulla Giornata della Memoria

Oggi, 27 gennaio, anniversario dell'apertura dei cancelli del lager di Auschwitz, si celebra la Giornata della Memoria. Ora, io non so se il verbo celebrare sia il più adatto, ma non ci voglio pensare. Scrivo di questo argomento senza serenità; è uno scrivere rabbioso, triste, feroce, veloce per scappare. Scrivere nella Giornata della Memoria è una violenza che mi faccio, di anno in anno, per dire che ci sono, che so, che non dimentico.

Paura di scrivere banalità, questo sì. Di fronte all'indicibile, all'impensabile, all'inimmaginabile della Shoah ho sempre paura di scrivere banalità. Ma è più grande la paura di non scrivere, di non fare la mia parte perché si eserciti la Memoria, che è sapere.

Il primo Ottobre 2012 ci ha lasciati Shlomo Venezia, autore della più agghiacciante testimonianza sui campi di sterminio nazisti: Sonderkommando Auschwitz.

Dopo decenni di silenzio, Shlomo ha deciso di parlare. Il suo racconto - una lunga intervista raccolta da Béatrice Prasquier nel 2006 e pubblicata per la prima volta in Francia per i tipi di Albin Michel - venne pubblicato in Italia da Rizzoli nell'ottobre del 2007.

E allora quest'anno, anche per ricordare lui, la Memoria voglio farla passare dalle sue parole.

Agghiacciante, dicevo. Ne ho tratto una breve, personale antologia. Ascoltiamolo (p. 77): "I tedeschi ci obbligarono a tirare fuori i corpi dalla camera a gas e a portarli davanti alle fosse che si trovavano sul retro della casetta. Io non entrai nella camera a gas, andavo su e giù tra il Bunker e le fosse, mentre altri uomini del Sonderkommando, più esperti di noi, mettevano i corpi nelle fosse in modo che il fuoco non si spegnesse. Se i corpi erano troppo vicini l'aria non poteva circolare e il fuoco rischiava di spegnersi o di diminuire di intensità, facendo così infuriare i Kapos e i tedeschi che ci sorvegliavano. Le fosse erano in pendenza; il grasso umano prodotto dai corpi che bruciavano colava lungo il fondo fino a un angolo, dove era stata scavata una specie di conca per raccoglierlo. Quando il fuoco minacciava di spegnersi, gli uomini prendevano un po' di grasso dalla conca e lo versavano sui corpi per ravvivare la fiamma. Una cosa del genere l'ho vista solo qui, nelle fosse del Bunker 2".

E ancora (p. 81): "In questa prima occasione non ero tra quelli che dovevano portare i cadaveri fuori dalla camera a gas, sebbene in seguito mi sia capitato spesso di doverlo fare. Chi era destinato a tale compito cominciava tirando i cadaveri per le mani, ma nel giro di qualche minuto le mani si sporcavano e diventavano scivolose. Per evitare di toccare i corpi, qualcuno provava a usare un pezzetto di tessuto che però si sporcava e si bagnava subito. Bisognava arrangiarsi. [...] Alla fin fine la cosa più semplice era usare un bastone e tirare il corpo da sotto la nuca. Con tutte le persone anziane mandate a morire, non ci mancavano certo i bastoni. Ci evitavano, almeno, di dover tirare i cadaveri per le mani. Era molto importante per noi, non perché si trattasse di cadaveri... quanto perché la loro morte era stata tutto tranne che una morte dolce. Era una morte immonda, sporca. Una morte forzata, difficile e differente per ognuno di loro.

Non l'avevo mai raccontato fino a ora."

E a pagina 129: "Poche persone hanno visto e possono raccontare questo episodio... eppure è vero. Un giorno, mentre tutti avevano cominciato a lavorare normalmente all'arrivo di un convoglio, uno degli uomini incaricati di togliere i corpi dalla camera a gas sentì un rumore strano. Non era così raro sentire rumori insoliti; spesso l'organismo delle vittime continuava a liberare gas. Questa volta però sosteneva che il rumore fosse diverso. Ci fermammo per ascoltare, ma nessuno sentì niente e pensammo che avesse avuto un'allucinazione. Qualche minuto più tardi ripeté che questa volta era certo di aver udito un rantolo. Facendo attenzione, anche noi riuscimmo a percepire il rumore, una sorta di vagito. All'inizio i gemiti erano intervallati, poi aumentarono fino a divenire un pianto continuo che tutti identificammo con il pianto di un neonato. L'uomo che se ne era accorto per primo si mise alla ricerca del punto da dove proveniva il rumore e scavalcando i corpi trovò una bambina di due mesi ancora attaccata al seno della madre, che piangeva perché non sentiva più arrivare il latte. L'uomo prese il bebè e lo portò fuori dalla camera a gas. Sapevamo che era impossibile tenerlo con noi e soprattutto nasconderlo o farlo accettare ai tedeschi. Infatti, quando la guardia lo vide, non sembrò dispiaciuto di dover uccidere un neonato. Sparò un colpo e la bambina che era miracolosamente sopravvissuta al gas morì. Nessuno poteva sopravvivere. Tutti dovevano morire, noi compresi: non si trattava che di una questione di tempo."

Il libro finisce così: "Non ho più avuto una vita normale. Non ho mai potuto dire che tutto andasse bene e andare, come gli altri, a ballare e a divertirmi in allegria...

Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto. É come se il "lavoro" che ho dovuto fare laggiù non sia mai uscito dalla mia testa...

Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio."

Tutto un libro così.

Nel Primo Levi che tanto amiamo, nelle pagine di Se questo è un uomo, o in quelle de I sommersi e i salvati, ritroviamo lo stesso identico assillo della prigionia e dell'esperienza del lager, e la stessa identica necessità di testimoniare e tramandare la memoria di un evento tragico. Ma la sua narrazione mette spesso in primo piano gli aspetti psicologici, è frutto di una elaborazione che ci lascia sperare che l'annientamento non fosse stato completo e che l'autore avesse mantenuta integra l'intelligenza delle cose.

Qui no. In Shlomo Venezia tutto è puro fatto: crudo, nudo, scarno. Il racconto è meccanico, freddo, maledettamente vero. Tutto è sacrificio, durezza, dolore. Tutto, e non v'è dubbio che il testo sia scritto proprio come lo volle l'autore, è annientamento. Shlomo Venezia non elabora, racconta. E non ci risparmia nulla.

C'è chi nega. L'antidoto è questo libro, coi suoi tre ingredienti: Lucidità, Onestà, Memoria.

Provare per credere.

Beppe Cantele (@beppecantele)