Roberto Ridolfi - La biblioteca violentata

Roberto Ridolfi - La biblioteca violentata

Brani scelti: ROBERTO RIDOLFI, L'acqua del Chianti, Milano, Rusconi, 1981, 1° ed., pp. 141-144.

"Non molte notti or sono, un valente manipolo di ladri forzuti m'ha scassinato la casa e sgomberato le stanze del piano terreno, portando via una grande, pesantissima tavola quattrocentesca, con lo stemma dei miei scolpito in altorilievo sui fianchi, e insieme ad essa altri mobili antichi ed altre stemmate anticaglie: erano i resti di un grande vascello che affonda, e quegli stemmi, la sua vecchia bandiera.

Il danno è grosso, almeno per me; eppure tanto non me ne duole quanto dello scempio della mia biblioteca. I giorni sono passati ed eccomi ancora qui, sgomento e inerte, a riguardare mobili e soprammobili e libri messi a soqquadro. Rubato il calamaio settecentesco d'argento che fu del mio trisavolo Gino Capponi, con tutti i suoi fornimenti, l'ampio spazio vuoto da esso lasciato fra le carte mi da un'esatta misura della sua grandezza; scassinati, slabbrati gli sportelli della scrivania, sulla quale quel calamaio aveva troneggiato ai tempi del "candido Gino"; sparsi tutt'attorno i fasci di carte tirati fuori dai cassetti: credevano forse di trovare oro e denari dove non è mai stato un quattrino. Tanta carta e neppure un po' di carta moneta; che brutta idea devono essersi fatti quei galantuomini di un poeta, di uno studioso!

Più d'una settimana è passata da quella notte, ma ho voluto lasciare ogni cosa come i barbari l'hanno lasciata; sono rimasti i vuoti, sono rimaste le ferite nel legno, che pur dovrò prima o poi decidermi a far medicare; rimarranno per sempre quelle dell'anima. In queste quattro stanze, e in altre due contigue, ho vissuto tutta la vita come una chiocciola nel suo guscio; nessuna altra cosa era così mia, ed oggi m'è quasi estranea. Attonito, passo le ore a guardare questo scempio con infinita pietà e insieme con un senso di repulsione: così, forse, si guarderebbe il corpo violentato della sposa, della compagna. E questa biblioteca è per me la compagna, la sposa. Ora tra me e lei si è frapposta quella violenza, sono passate a stazzonar tutto, oscenamente, quelle mani brutali.

Da allora non sono stato più capace di aprire un libro, di scrivere qualche parola sopra un foglio se non finalmente queste di disperazione, forse di addio. Si direbbe che io avessi scritto finora a dettatura di questi libri ed essi, per l'orrore, si siano ammutoliti ad un tratto. Continuamente mi chiedo, come in una tacita cantilena, se mai riprenderò a filare il tenue filo che da tanti anni vado filando, e poi con esso tessendo la mia ragnatela di pensieri e di fantasie. E se non posso più filare né tessere in queste stanze, soltanto nelle quali filare e tessere mi riusciva, non mi resta che andarmene. Ma dove, ma dove? Ossessivamente, mi tornano sulle labbra parole lontane: "Percorrere tutte le strade del mondo, per imparare che la più bella è quella che gira attorno alla propria casa venduta".

Indro Montanelli ha scritto una volta, canzonandomi alla sua maniera, che mi basta mettere un piede fuori della Toscana per sentirmi già all'estero. Ebbene, io mi canzonerò molto di più: fuori di queste quattro stanze non mi par d'essere in casa mia. Nella mia camera da letto io sto come un ospite; vi salgo a notte alta e la mattina, appena alzato, non vedo l'ora di ridiscendere giù nelle stanze dei libri. In una di esse, ancora bambino, cominciai a tribolare sui latinucci; tutte, per mezzo secolo e più, anno dopo anno, ho riempito di scaffali e gli scaffali di libri: e i libri di uno scaffale portano tutti il mio nome.

Questa biblioteca ho vegliata quando avevo piena la casa di soldatacci tedeschi ed io, io solo, ero rimasto a vegliarla; le schegge d'acciaio sfrondavano gli alberi che la circondavano, piovevano sulla ghiaia del giardino, battevano sui muri esterni. Essa m'ha a sua volta vegliato quando, infermatomi gravemente, m'ero fatto portare tra i libri perché dove m'era piaciuto di vivere mi sarebbe piaciuto morire. Quelle giornate e quelle nottate sono forse il punto più alto e patetico del mio umano cammino. Insomma, qui ho goduto la pace, qui ho patito la guerra, e non soltanto le guerre dello spirito. Tutta la fatica, tutto il dolore della mia vita sono passati di qui; qui m'ha colto a un tratto sul finir della vita, che quetamente aspettavo, questo dolore non aspettato.

Nella nostra memoria i ricordi, dall'infanzia alla vecchiaia, stanno schierati uno dopo l'altro come i libri nei palchetti degli scaffali; ogni tanto si torna a sfogliarli, e i grandi dolori fanno da segnalibro.

O Dio, se codesti altri libri sfoglio e riconsidero, quanto dura e tribolata m'appare la nostra fatica, quanto il dolore! Tu lo sai, perché sei Dio e Dio tutto sa; ma anche lo sai perché volesti farti uomo per provare, tu, Dio, la fatica e il dolore dell'uomo. Tuttavia (se questo mi è pur lecito dire) te sorreggeva ciò che noi non sorregge: l'essere insieme figlio dell'uomo e figlio di Dio."