La crisi del diritto: Ludovico Antonio Muratori - Dei difetti della giurisprudenza

Ludovico Antonio Muratori - Dei difetti della giurisprudenza

La piaga maggiore, alla quale non hanno saputo e non sanno porre rimedio le riforme che si sono succedute con crescente frequenza negli ultimi vent'anni, è la lentezza dei giudizi. Sia di quelli penali - disdicevole per la conseguente restrizione della libertà personale di soggetti in attesa di giudizio - sia di quelli civili - disastrosa per le nefaste conseguenze e negative ricadute sull'economia nazionale, che non riesce anche per tale motivo, ad attrarre investitori stranieri, né a garantire sul fronte interno una certezza dei rapporti giuridici in tempi ragionevoli.

 Non tedio il lettore, qui e ora, con quei particolari di "vita di trincea" che colleziono quotidianamente nella mia esperienza di avvocato civilista nelle paludi del nordest. Volevo solo rileggere: oramai, si sa, amo le "riletture", per provare. Per provare, id est fornire la prova, che l'uomo è sempre lo stesso, i suoi drammi e i suoi problemi sempre gli stessi, e che occorre qualcosa di veramente nuovo (un nuovo modo di vedere il mondo?) perché le cose cambino davvero.

E rileggiamolo, allora, uno dei testi classicissimi della letteratura giuridica. Forse uno dei testi più noti e più frequentati, ma che offre sempre, tra le pieghe, motivi di riflessione per noi postmoderni. Traggo liberamente alcuni brani - folgoranti, illuminanti, e che quanto a contenuto sembrano scritti ieri - dal capitolo XIV, intitolato proprio "Del pernicioso difetto della Giurisprudenza per la lunghezza delle liti" di questa bella edizioncina manabile di fattura tridentina e gentilmente messa a mia disposizione dallo Studio Bibliografico Apuleio, quasi coeva alla prima edizione che uscì dai torchi nell'autunno del 1742.  Beppe Cantele

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LUDOVICO ANTONIO MURATORI, Dei difetti della giurisprudenza, (Trento, Stamperia Paroniana, 1743).

"NON ci sarebbe bisogno, ch'io mi mettessi a provare la lunghezza, per non dire l'eternità delle liti, praticata ne' nostri tempi; perché non v'ha persona, che metta per poco il piede ne' Tribunali, o che per sua disavventura sia stato costretto ad intentare, o a sofferire una lite, che non sappia, se si sbrighino presto o tardi sì fatti combattimenti. E questo è male non di un Paese d'Italia, ma di tutti; né de' soli nostri tempi ma anche degli antichissimi, e molto più degli ultimi passati Secoli. Da che insorsero nel Secolo XII. le Leggi Romane, e cominciò il gran sapere Legale ad agitar cause civili, si cominciò ancora ad inventar tutte le maniere possibili per tirarle in lungo. Sarà stato per mettere ben in chiaro la Giustizia, per dilucidar tutti i dubbj, onde non resti luogo di fallare a i Giudici. Volesse Dio, che almen questo si ottenesse. Quel che di certo si ottiene, è che quanto più vanno in lungo le cause, tanto maggior provento viene agli Avvocati, Procuratori, Sollicitatori, e Notaj. [...].

ORA non si può dire, quante invenzioni, remore, e sutterfugj abbia trovato, e metta tutto dì in pratica quella scienza, che è destinata per ministrare, o far ministrar la Giustizia, affinché questa o non si faccia mai, o si faccia il più tardi che si può. [...].

Non fia vero, ch'io ami sì poco i Lettori da volerli meco introdurre per diporto nell'ampio e spinoso Laberinto delle cause Giudiciali, e ne' grossi processi, che a cagion d'esse si formano. Preghino essi più tosto Dio di non aver mai da imparare a loro spese, che paese sia questo. [...].

Terminato anche il processo, non accennerò, quanti altri scampi restino per continuar la battaglia, ed impedire che non si pronunzj la sentenza. Pronunziata poi questa, se non è di Giudice, o Tribunal supremo, non suol già essere finita la guerra. Eccoti l'appellazione; e dopo la sentenza profferita, ma il più tardi che si può, in quest'altro Tribunale, succede un'altra appellazione ad altro Tribunale. [...].

La conclusione di tutto questo si è che la soverchia e sterminata lunghezza delle liti per tante sottigliezze giri e rigiri inventati dall'acutezza de' Causidici è divenuta un male familiare dell'Italia e di tant'altri Paesi Cristiani, e male di sommo incomodo e danno a chiunque per sua disavventura dee fare o sostener delle liti. Quand'anche si tratti di un credito liquido, ed incontrastabile, a cui non v'ha giusta opposizione alcuna, e che dovrebbe sbrigarsi alla prima comparsa del debitore: se questi ricorrerà ad un Procuratore onorato, gli saprà questi colle sole eccezioni generali, e molto più col resto delle cavillazioni, che non mancano a chi ne vuole, guadagnar più mesi di respiro a soddisfare. Anzi alcuni Statuti talmente assistono al debitore, che quasi li direi composti da' Dottori, bisognosi anch'essi di pagare il più tardi che potessero i debiti proprj. E con tante istanze, e risposte, pruove, ripruove, e decreti, sì fattamente s'ingrossano i processi, scritti con trè parole per riga, che la spesa d'essi, aggiunta alle sportole, al salario degli Avvocati, de' Procuratori, de' Sollicitatori, de' Messi pubblici ec. fa piagnere chi ha vinto, non chi ne esce perditore. [...].

ORA questo malanno, che non è lieve nell'umano commerzio, si vede, si pruova, e benché se ne conosca l'eccesso, e massimamente se ne lagni chiunque v'incappa: pure si tollera. Quel che è più, né pure alcuno de' Principi, benché amanti del pubblico bene, pensa a mettervi riparo."