Perché Mattia Pascal impara a sorridere del destino - di Carlo Picca

Perché Mattia Pascal impara a sorridere del destino - di Carlo Picca

Perché affannarsi tanto quando, la realtà non è tutta come l'avresti voluta, e non è possibile migliorarla in toto? Non è meglio talvolta invertire lo sguardo con il quale la si vive? Probabilmente sì, e sorridere, diventa fondamentale in questa delicata manovra di sopravvivenza esistenziale.

Il fu Mattia Pascal venne scritto dopo la grave crisi familiare del 1903, che pose Pirandello in cattive condizioni economiche e vide anche lo scatenarsi della malattia mentale della moglie. Certamente è per questo che assume i connotati di un lavoro profondo, fatto con uno scavo intimo di notevole fattura interiore prima che narrativa. Fu pubblicato a puntate sulla rivista Nuova Antologia fra l'aprile e il giugno del 1904 e poi, in volume, nello stesso anno, come estratto di questo periodico.

Si può sicuramente affermare che questo romanzo, assieme a La coscienza di Zeno dello scrittore triestino Svevo, inaugurino la scrittura novecentesca italiana, quella che rompe definitivamente con le convenzioni d'uso nell'ottocento. L'unità del personaggio che parla in prima persona è frantumata dal suo riferirsi a tre diverse incarnazioni: il primo Mattia Pascal, Adriano Meis, ed il redivivo Pascal.

Quest'ultimo, avendo cercato una nuova identità scappando da quella precedente, e dopo averla attraversata con dubbi benefici, ritorna a partire da zero, ma con la beffa di ritrovarsi ad essere il fù di quel precario se stesso che era stato. Con il messaggio ironico chiaro che, talvolta, fuggire dalla realtà che non si riesce a vivere serenamente, equivale a ritrovarsi al punto di partenza, ma peggio di come si era cominciata la prima volta.

A ben vedere quindi, non resta che un sorriso nuovo in una rinnovata consapevolezza del vivere. E così, in quest'opera, inizia a prendere vita l'importante riflessione sull'umorismo che sarà teorizzata successivamente dallo scrittore siciliano nel saggio omonimo del 1908. Come ben si evidenzia nel capitolo V, quando nella zuffa a botte di mattarello e pasta fresca, fra la vedova Pescatore e la zia Scolastica, il protagonista, davanti allo specchio, vede sul suo viso lacrime sia di dolore ma anche di riso.

La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m'afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi

La mescolanza degli opposti, il piangere ed il ridere, danno vita a quel sano senso autoironico che partorisce un atteggiamento sornione, e certamente più salutare, che evita di cadere sopraffatti nella tragedia degli eventi umani a cui non è possibile dare, più che un ordine, un senso.

Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque…

Così Mattia Pascal, da qui in avanti imparerà sempre più a tutto tondo a ridere sommessamente del destino, perché accetterà in modo nuovo il corso delle cose, comprendendo che sarà possibile vivere la propria personalità gestendo le intime angosce e convenzioni sociali con una bella dose di ironia, che dolcemente gli farà sempre da profonda ancora di salvataggio e da toccasana  rigenerante…

Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento...

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