Giacomo Leopardi - Il sogno

Giacomo Leopardi - Il sogno (canto XV)

Poesie scelte: GIACOMO LEOPARDI, I canti (Napoli, Saverio Starita 1835).

Era il mattino, e tra le chiuse imposte
per lo balcone insinuava il sole
nella mia cieca stanza il primo albore;
quando in sul tempo che più leve il sonno
e più soave le pupille adombra,
stettemi allato e riguardommi in viso
il simulacro di colei che amore
prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

Morta non mi parea, ma trista, e quale
degl'infelici è la sembianza. Al capo
appressommi la destra, e sospirando,
vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
serbi di noi? Donde, risposi, e come
vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
di te mi dolse e duol: nè mi credea
che risaper tu lo dovessi; e questo
facea più sconsolato il dolor mio.

Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
internamente? Obblivione ingombra
i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
disse colei. Son morta, e mi vedesti
l'ultima volta, or son più lune. Immensa
doglia m'oppresse a queste voci il petto.

Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
quand'è il viver più dolce, e pria che il core
certo si renda com'è tutta indarno
l'umana speme. A desiar colei
che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
l'egro mortal; ma sconsolata arriva
la morte ai giovanetti, e duro è il fato
di quella speme che sotterra è spenta.

Vano è saper quel che natura asconde
agl'inesperti della vita, e molto
all'immatura sapienza il cieco
dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
con questi detti il cor. Dunque sei morta,
o mia diletta, ed io son vivo, ed era
pur fisso in ciel che quei sudori estremi
cotesta cara e tenerella salma
provar dovesse, a me restasse intera
questa misera spoglia? Oh quante volte
in ripensar che più non vivi, e mai
non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
che morte s'addimanda? Oggi per prova
intenderlo potessi, e il capo inerme
agli atroci del fato odii sottrarre.

Giovane son, ma si consuma e perde
la giovanezza mia come vecchiezza;
la qual pavento, e pur m'è lunge assai.
ma poco da vecchiezza si discorda
il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
disse, ambedue; felicità non rise
al viver nostro; e dilettossi il cielo
de' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
soggiunsi, e di pallor velato il viso
per la tua dipartita, e se d'angoscia
porto gravido il cor; dimmi: d'amore
favilla alcuna, o di pietà, giammai
verso il misero amante il cor t'assalse
mentre vivesti? Io disperando allora
e sperando traea le notti e i giorni;
oggi nel vano dubitar si stanca
la mente mia. Che se una volta sola
dolor ti strinse di mia negra vita,
non mel celar, ti prego, e mi soccorra
la rimembranza or che il futuro è tolto
ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
o sventurato. Io di pietade avara
non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
che fui misera anch'io. Non far querela
di questa infelicissima fanciulla.

Per le sventure nostre, e per l'amore
che mi strugge, esclamai; per lo diletto
nome di giovanezza e la perduta
speme dei nostri dì, concedi, o cara,
che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
soave e tristo, la porgeva. Or mentre
di baci la ricopro, e d'affannosa
dolcezza palpitando all'anelante
seno la stringo, di sudore il volto
ferveva e il petto, nelle fauci stava
la voce, al guardo traballava il giorno.

Quando colei teneramente affissi
gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
disse, che di beltà son fatta ignuda?
e tu d'amore, o sfortunato, indarno
ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
son disgiunte in eterno. A me non vivi
e mai più non vivrai: già ruppe il fato
la fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
gridar volendo, e spasimando, e pregne
di sconsolato pianto le pupille,
dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
pur mi restava, e nell'incerto raggio
del Sol vederla io mi credeva ancora.

Recanati, dicembre 1820